di Alessandro Tedde – Almeno dal 2008, la sinistra italiana affronta una situazione di impotenza strategica crescente, alla quale oppone una serie di soluzioni tattiche di vario genere, che vanno dal continuo richiamo alla necessità di nuovi processi costituenti di soggetti politici alle reiterate modifiche dei propri simboli, con l’intento di raccogliere nelle urne quanto si muove al di fuori delle sedi di partito; dopo dodici anni, in cui a pochi momenti alti si sono accompagnati molti momenti bassi, non sembra esserci più un grande spazio di manovra per condurre un ennesimo tentativo di questo genere.
In questi ultimi anni stiamo vivendo il tratto terminale della fase della “rifondazione comunista” iniziata nel 1991 in contrapposizione allo scioglimento del partito comunista. Da essa sono nati almeno una decina di partiti che si fregiano di questo titolo, la maggior parte dei quali sono scissioni dell’originario Partito della Rifondazione Comunista, forse l’unico soggetto che, in virtù della propria tradizione, può ancora avere l’ultima parola per chiudere quella fase storica e aprirne una nuova, decidendo cosa fare e come disporre di quell’eredità.
Nella vicenda quasi trentennale del PRC non sono mancati i tentativi di scioglimento o di liquidazione: questi non solo non hanno avuto successo, ma il più delle volte hanno cercato di usare la chiusura del partito come un succedaneo della chiusura della rifondazione comunista, probabilmente per non essere costretti a rivelare l’amara verità che il compito dell’autonoma definizione di un’espressione di contrarietà sistemica allo status quo fosse ben più grande delle reali capacità di cui il partito ha potuto disporre dall’atto della sua nascita. In verità, chiudere la fase della rifondazione comunista è una questione ben più complessa del porre fine a un partito che si richiama nominalmente a quella prospettiva, perché implica tanto un giudizio ex post sulla fase storica passata che una previsione ex ante su quella a seguire. Non si tratta, dunque, di questioni che possono essere risolte davanti a un notaio e, anzi, è possibile che la reiterata tentazione di sciogliere il PRC abbia prevalentemente nuociuto alla possibilità di mettere un punto fermo alla questione della rifondazione comunista.
Al termine di questo trentennio, abbiamo capito cosa intendesse Marx quando indicava i comunisti come coloro i quali si trovano all’avanguardia dei partiti proletari: in ipotesi, tutti possono autonominarsi tali, ma è solo la Storia a decidere se effettivamente lo siano, giacché un’avanguardia non sa di essere tale prima che la Storia si sia pronunciata in tal senso. Oggi, di questo processo storico del proletariato di cui vorremmo essere l’avanguardia, abbiamo spesso difficoltà a capire il verso, la direzione: ciò significa che, innanzitutto, dobbiamo indagare la composizione della sua retroguardia, ovverosia guardare all’articolazione del grosso del soggetto storico (motivo per cui è un errore sottovalutare il ruolo dello studio e della ricerca, considerandoli come una funzione della politica culturale del partito e non, invece, una funzione dell’organizzazione).
Qualche tempo fa, su transform! europe, Gerassimos Moschonas, pubblicava uno studio nel quale prendeva di petto la questione della definizione di una strategia classista esclusivamente nazionale nel contesto di uno Stato membro dell’Unione Europea, giungendo ad affermare che una tale ipotesi fosse oggi residuale, nel senso che fosse possibile solo se accompagnata a un intento politico insurrezionale, invero assai difficile. Precisamente, a causa dell’interdipendenza esistente nel contesto dell’Unione tra le singole economie nazionali (e, dunque, tra i lavoratori degli stessi stati), una strategia della sinistra che prescindesse del tutto da un’articolazione della lotta di classe sul piano europeo non potrebbe che affermarsi esclusivamente come contrapposizione frontale nei confronti dello stato e delle organizzazione che da esso traggono origine, comprese quelle internazionali e sovranazionali: stiamo parlando, dunque, di un piano che trascenderebbe quello propriamente politico per accedere ad una dimensione prettamente “militare” del conflitto di classe, ovverosia a una dimensione che, per stare al caso italiano, rinnegherebbe il fondamento stesso dell’armistizio strategico rappresentato dalla costituzione repubblicana.
In quest’ottica, non vi è spazio alcuno per la costituzione di un soggetto politico classista (e anche, se vogliamo, processualmente rivoluzionario) che tragga esclusiva origine e legittimazione dalle risorse politico-storiche nazionali, prescindendo da un’articolazione internazionale del proprio programma storico. Ciò è tanto più vero nel caso dell’Italia, il maggiore tra i Paesi membri dell’Unione ad avere introdotto a livello costituzionale la comunitarizzazione della definizione del proprio indirizzo economico, che rappresenta la parte più rilevante dell’indirizzo politico di uno Stato: la lotta di classe, in Italia, si fa anche (e talvolta soprattutto) in Europa, sicché le forme dell’organizzazione di questa lotta su base nazionale non possono prescindere da quelle esistenti a livello sovranazionale.
Ciò significa che la rifondazione comunista non può giungere a risultato all’interno del solo perimetro nazionale, perché essa si presenta costitutivamente come una questione “più che nazionale”, che vive una dimensione di classe se e solo se essa è anche internazionale. Di conseguenza, la chiusura della fase trentennale della rifondazione comunista in Italia implica una sua coeva apertura a un livello che non sia meno che europeo, con tutte le conseguenze che possono conseguire sul piano programmatico e su quello dell’organizzazione. Si tratta di introdurre un elemento d’ordine nella grande confusione della sinistra italiana: il che non sarà molto, ma è pur sempre un punto di partenza.