Da decenni stiamo in equilibrio su una tavola da surf sospinta da un massiccio e inarrestabile cambiamento dello scrivere e del leggere dovuto al computer e a internet. Si tratta di una condizione che ha riflessi importanti di carattere sociologico, cognitivo, antropologico, politico: è uno dei temi della innovazione. Viaggiamo sulla cresta di un’onda in movimento che si nutre della operosità di ogni soggetto coinvolto fino al livello individuale. Da qui –anche– il suo carattere pratico. Dico questo perché mi rendo conto che l’esposizione di regole e consigli semplici rischia di essere liquidata come semplicistica. Credo che sia un rischio di incomprensione che va corso in una fase in cui il distacco tra pratica, consapevolezza, esercizio della propria performance spesso esplode in una serie di incomunicabilità. Eppure la critica di semplicismo va accolta di buon grado nella misura in cui bisogna pur ammettere la povertà degli strumenti in relazione al compito.
Questa volta mi limiterò ad alcune considerazioni che si fermano a prima dell’introduzione del web 2.0 e mi limiterò ad accennare al processo di mediatizzazione e di brandizzazione dei soggetti che si dispiegherà successivamente.
Ma prima delle onde odierne antepongo onde antiche, con agio.
Con lo sperimentale torchio a caratteri mobili Gutemberg ultimò la stampa della «Bibbia a 42 linee» nel 1455. Era in caratteri gotici, in latino, e tirò 180 copie. A parte la Bibbia di Ulfila in gotico del IV secolo, le più antiche traduzioni in tedesco risalgono al medioevo e sono in yiddish. Il più antico e ampio manoscritto è del 1421, mentre tra le molte versioni stampate non a caratteri mobili c’è sono quella pubblicata 1543-44 ad opera di Michael Adam, un convertito.
Nel 1521 Lutero iniziò la traduzione della Bibbia, interrogando “la madre in casa, i bambini in strada, il popolo al mercato”… e così il popolo al mercato potè giovarsi dell’invenzione di Gutemberg da cui oggi prende il nome un diffuso editor per siti internet. La macchina usata per la stampa era derivata dalla pressa a vite per la produzione del vino e i caratteri erano fusi in metallo, consentendo il loro riutilizzo per altre opere. Con la tecnica precedente la matrice di stampa veniva incisa su un unico pezzo di legno impiegabile solo per la medesima pagina e molto deperibile.
Dunque fu con un torchio per il vino che l’Europa fu inondata da 30.000 titoli per una tiratura complessiva superiore ai 12 milioni di copie in 50 anni. Ma oltre che essere reso più produttivo, il testo stampato andò incontro a una evoluzione rivolta a rendere la lettura più agevole.
La riga, la pagina, la punteggiatura, il disegno dei caratteri… tutti questi elementi furono misurati dal mestiere e dall’arte del tipografo, per rendere il libro più fruibile (e più vendibile): sono cose che il lettore normalmente ignora ma che gli balzano agli occhi (è il caso di dirlo) quando qualcosa non funziona, anche se talvolta il disagio non è così apparente e si traduce in un malditesta. La pagina del libro non è solo un spazio fisico ma anche uno spazio percettivo e mentale.
Infatti per raggiungere un buon risultato di impaginazione i tipografi ricorrevano a aggiustamenti dell’ordine dei centesimi di millimetro. Se la loro arte falliva non si peritavano di chiedere all’autore di modificare il testo. E gli autori – ad esempio Ibsen, citato in Donald Knuth il manuale del TeX,1 acconsentivano e riscrivevano la frase riottosa alle arti del compositore tipografico.
Tutto questo saper fare sembra essere perso al computer o al telefonino. Lo schermo ha tanti limiti e il canone del libro conserva una sua precisa ragion d’essere là dove la stampa si rivela insostituibile.
Ma una spropositata mole di informazione e comunicazione viene trasmessa comunque su schermo e si costruisce i propri canoni e il proprio linguaggio. Si tratta di numeri che crescono con una tale velocità che ci si deve astenere dallo scriverli: è meglio suggerire questo link al sito livestats.com che mostrerà la situazione al momento (se scorrerete la home page fino in fondo, vedrete anche l’incrementarsi dell’elettricità utilizzata e della CO2 emessa da internet).
Leggere a schermo è faticoso: pone difficoltà solo parzialmente risolte dai lettori per ebook. Ma è soprattutto lo spazio mentale della pagina a venire disciolto dallo schermo: diventa uno spazio potenzialmente infinito ma molto limitante. In un libro il lettore è condotto a modulare la sua attenzione su dimensioni certe e l’occhio ritornare liberamente sopra, se necessario; a schermo ci muoviamo verso il basso… indefinitivamente o verso l’alto a balzelloni.
Tengo distinto il fatto che gli ipertesti fanno esplodere la lettura in illimitati e non prevedibili percorsi di lettura e il loro utilizzo poco accorto può impedire il processo di assimilazione dei contenuti o produrne di inaspettati. I contenuti multimediali introducono modalità di fruizione e comunicazione diverse da quelle testuali.
Insomma, su internet occorre rielaborare le modalità di lettura e scrittura tipiche del testo stampato, mentre si conferma l’importanza del ricorso alla reazione dei lettori, al di là dell’interesse per i contenuti. Un problema centrale e sufficientemente complesso da non poter essere risolto affidandosi in modo esasperato ai parametri di valutazione che imperano attualmente. Infatti il numero degli accessi, quelli unici, la frequenza di rimbalzo o il tempo medio di permanenza sulla pagina sono certamente degli indicatori essenziali ma esprimono anche un giudizio di valore –e un uso delle tecniche associate- che è basato su una logica di marketing e che va messo in discussione mettendolo a confronto con le intenzionalità. D’altra parte – e non per riproporre un passato – i ciclostilati o i da-tze-bao davanti a fabbriche, scuole e uffici o l’esposizione dell’immagine anatomica di donna praticata dalle femministe non brillavano dal punto di vista delle arti dell’impaginazione…
La prima prescrizione contro il disturbo del leggere e dello scrivere a schermo è consistita in una severa dieta dimagrante dei testi. Ne parlo al passato anche se il suggerimento conserva ancora un quota di utilità.
Si consigliavano riduzioni del 50% per chi era abituato alla prosa liceale o universitaria dei decenni scorsi (per i giornalisti o i saggisti o i nuovi scriventi questa percentuale si riduce di molto). Questa semplice cura ha sempre suscitato un profondo rigetto che va oltre la reazione a un attacco alle abitudini e allo stile personale. D’altra parte l’eliminazione delle parti inessenziali non tocca lo stile, se ne può fare la prova esercitandosi nella semplificazione di un testo preferibilmente non uscito dalla propria penna: il magro testo risultante rimane comunque quello di un’altra persona e non perde la sua unicità.
Senza nemmeno sfiorare la critica manzoniana borghese della prosa seicentesca, dagli usi emerge che lo scrivente utilizza spesso la frase per rimandare o attenuare la esplicitazione del pensiero. Certo lo scrivere è un processo che ha lo scopo di esprimere un pensiero e anche aspetti formali e culturali del linguaggio per includere idealmente lo scrivente in un proprio ambiente di elezione. Si tratta di una dimensione privata che andrebbe esplorata con discrezione e tatto; ma rimane il fatto che non attiene strettamente all’intenzione comunicativa e che può essere percepita come un abuso quando cambiano le modalità di lettura o si affacciano nuovi lettori. Questo uso poco funzionale tocca la dimensione transazionale del linguaggio piuttosto che l’identità stilistica o il bisogno espositivo. E’ un lavoro davvero faticoso ristrutturare il testo a favore di un processo di acquisizione piuttosto che della relazione dello scrivente con il suo linguaggio; difficilissimo farlo per altri.
Quando si tratta di una pagina web, soprattutto di una home page, limiti e obblighi si fanno più stringenti perché lì caso si presentano in modo concentrato problemi che vanno oltre l’impaginazione e che diventano editoriali.
I materiali in internet possono essere raggiunti direttamente, tramite motore di ricerca o social, saltando la home page, ma la sua importanza resta centrale perchè la pagina principale riflette le caratteristiche particolari di un dominio ed è destinata a presentare il sito in modo sintetico: la home page viene percepita dal navigante per linguaggio, per contenuti, per intenzione e per funzionalità, per stile, per canone e in relazione alla congruenza con le altre pagine che costituiscono il sito.
Questo insieme organico di aspetti è particolarmente importante dal momento che il lettore mediatizzato e costituito su un livello di socievolezza neo-liberale accede ai contenuti, alle linee di pensiero, al metodo dialogico tramite l’esercizio costante di una brandizzazione delle fonti.
L’originalità delle intenzioni che animano un sito non può essere delegata a degli standard, ma deve essere costantemente ri-mediata tramite una appropriazione e rielaborazione creativa di tutti gli elementi fondanti dell’identità del sito, un processo adattativo e evolutivo che pretende di essere agito ma che non può fare a meno del sostrato (im-)materiale e della relazione di contesto.
La transazione con il lettori deve essere garantita a più livelli e modulata su quello che un tempo si chiamava il piano editoriale e cioè l’elaborazione di una strategia per raggiungere il pubblico desiderato. Un pubblico che credo debba consistere ancora, in un certo senso, ne “la madre in casa, i bambini in strada, il popolo al mercato” e che vanno interrogati… in tedesco.
- D. Knuth, professore al M.I.T., nel 1985 mise a punto un sofware finanziato con denaro pubblico per la impaginazione di testi di matematica. Infatti si trovava necessario consentire la circolazione di articoli e saggi senza le strettoie e i costi del ricorso alle tipografie.[↩]