di Stefano Galieni – La cosiddetta Grande Guerra di cui si celebrano i cento anni dalla fine il 4 novembre è davvero mai terminata? Bisognerebbe partire da questa domanda per comprendere il presente e per districarci in un’astratta concezione geopolitica della Storia che dimentica con facilità le proprie radici. Da quel 4 novembre 1918 non mai nata un’era di prosperità e pace. Se il punto di vista rimuove l’eurocentrismo di stampo coloniale di cui in tante/i si è vittime si scopre che il prima e il dopo sono stati soltanto forieri di tragedie annunciate. Il prima con le espansioni coloniali britanniche, francesi, belghe, tedesche, spagnole, portoghesi e poi anche italiane soprattutto verso il continente africano, il dopo con la dissoluzione degli imperi usciti da quella che un papa definì “inutile strage”, e che divenne unicamente elemento di revanchismo per gli sconfitti e gli scontenti. In pochi anni cambiavano le forme della guerra, dalla trincea al bombardamento anche con gas e agenti chimici verso le popolazioni civili, dai primi carri armati ai cacciabombardieri, dall’idea di scontro fra eserciti in campo aperto alla logica di distruzione del nemico con ogni mezzo necessario. Già con il secondo conflitto mondiale cambiano gli scenari. Intanto le aree di guerra combattuta non interessano unicamente il territorio europeo ma si espandono verso Asia, USA e continente africano. La guerra diviene effettivamente mondiale, tanto da determinare le proprie svolte con gli assedi a città lontane, come Stalingrado e intanto con i bombardamenti a tappeto di Coventry, Dresda, fino alle catastrofi nucleari di Hiroshima e Nagasaki. In mezzo la realizzazione di progetti di assoggettamento di aree del pianeta, si veda il Giappone con la Cina o la Germania verso l’est concepito come “spazio vitale” fino alle modalità proprie della pulizia etnica come quella adottata nei campi di sterminio nazifascisti.
Se ne uscì con la falsa idea che quanto accaduto, “il male assoluto” si rivelasse irripetibile. Eppure i conflitti si sono replicati, con la stessa virulenza, nelle aree periferiche del pianeta, dalla Corea all’Indocina, dai conflitti a bassa intensità in America Latina a quelli di espropriazione a cui si sono opposti i movimenti di liberazione dal dominio coloniale nelle diverse realtà africane. Conflitti che soltanto negli anni Novanta (Ex Yugoslavia) hanno lambito l’Europa, ma che hanno provocato e provocano non solo genocidi ma migrazioni forzate, miseria diffusa, instabilità per interi continenti. Una guerra diffusa e delocalizzata laddove la vita umana ha meno valore, occupazioni che vengono definite “missioni di pace” o “interventi umanitari”. Giungono alla ribalta quando esplodono e poi cadono, soprattutto in paesi in cui è scarsa la conoscenza del resto del pianeta, nel dimenticatoio più assoluto, rotto solo quando a perire è una persona di serie A, un militare occidentale, non certo le decine di migliaia di civili.
Già perché l’evoluzione di quella che solo da un salotto sicuro si può chiamare “l’arte della guerra”, è stata in cento anni impressionante. Non sono più gli eserciti a fronteggiarsi ma la morte giunge dall’alto, magari con droni o missili “intelligenti” lanciati da centinaia di chilometri di distanza e capaci di radere al suolo un quartiere per il solo fatto che probabilmente nel comprensorio vive un leader nemico. Le chiamano ancora “armi convenzionali” per distinguerle dagli ordigni nucleari ma hanno il potenziale distruttivo e di annientamento di quelli atomici sganciati in Giappone per punire, a guerra già vinta un paese nemico lanciando contemporaneamente un segnale a quello che sarebbe divenuto il nemico successivo, l’URSS.
Nessuna nostalgia per i blocchi sia chiaro ( anche se almeno allora c’era una soglia che non poteva essere oltrepassata anche nell’uso delle armi), ma dall’89 in poi è ineludibile che il “nuovo ordine mondiale” non sia divenuto altro che un susseguirsi di bombardamenti e di invasioni militari. Mai come oggi l’industria militare ha conosciuto profitti così alti.
Non c’è assolutamente voglia di banalizzare un secolo di storia senza voler distinguere, torti e ragioni comprese, i singoli fatti che son accaduti, ma resta un filo conduttore che anche in Europa, nella pacificata Europa, cento anni dopo sembra poter dare un senso al tutto.
L’Europa, come l’America di Trump, la Russia di Putin, riscoprono, o meglio gettano la maschera e rivendicano sdoganandoli totalmente gli impianti ideologici del nazionalismo più becero. In Europa crescono le forze che non solo propagandano, da destra, la volontà di ripartire dalla sovranità nazionale e dagli interessi non negoziabili, come elemento fondante del proprio agire politico, ma che, con la chiusura delle frontiere alle persone, con la minaccia dei dazi, con l’idea pervasiva che ogni paese si possa salvare a scapito degli altri, rimanda indietro le lancette dell’orologio. Se si parte dal presupposto che non esistano più le interconnessioni (fatte salve quelle dei capitali finanziari), che debbano sorgere sempre più confini e si debbano investire sempre più risorse in sistemi di controllo e di sicurezza per allontanare gli indesiderati, che si debbano resuscitare revanchismi tirati fuori dalla paccottiglia di regime per tornare alla trinità di “dio, patria e famiglia”, si gettano le basi non solo per conflitti futuri, (difficile pensare oggi a una guerra in Europa) ma per modalità sempre più a-democratiche di gestione del potere. L’impianto ideologico del “prima gli italiani”, o i francesi, gli svedesi eccetera, che nega ogni differenza di classe, ogni forma di sfruttamento basato sul genere, sulla provenienza, è foriera di un mondo da incubo.
La guerra non è finita e fino a quando la retorica patriottarda riuscirà a far dimenticare le ragioni del malessere di un intero pianeta sarà impossibile produrre cambiamento reale. Mai come oggi quindi diviene necessario, per ribellarsi a guerre passate, presenti e future riaffermare e praticare un antico concetto, ad alcuni, anche sedicenti di sinistra, inviso. “Nostra patria è il mondo intero”.